SOFFOCARE di Chuck Palahniuk: Anticonformista della letteratura contemporanea
Lo stile narrativo di Palahniuk è scientifico e crudo, molto simile a quello dei Cannibali, il gruppo di scrittori della scena pulp italiana sviluppatasi proprio nella metà degli anni novanta, di cui fanno parte, tra gli altri, Tiziano Scarpa e Niccolò Ammaniti. Uno stile che rasenta il grottesco, dove le parole sono enfatizzate per far esplodere le frasi.
La sua scrittura si basa su un vocabolario limitato, frasi brevi per imitare il modo in cui una persona media può raccontare a voce una storia. Le ripetizioni di alcune battute o frasi, sono una delle caratteristiche distintive del suo stile narrativo, sparpagliate lungo i capitoli ma anche rilanciate in altri suoi romanzi. I personaggi delle storie di Palahniuk spesso irrompono in divagazioni filosofiche, prestandosi così alle più svariate interpretazioni e opinioni. Spesso misantropo e oscuramente assurdo, su questioni complesse come morte, moralità , infanzia, genitorialità , sessualità e fede.
Altri concetti vengono espressi con l’uso della cosiddetta “lingua bruciata”(ispirandosi a Paul Spanbauer suo mentore), dire qualcosa ma dicendola male, e soprattutto in maniera contorta per rallentare il lettore e forzarlo a prestare attenzione a particolari dettagli o concetti espressi. Funziona bene quando è usata con molta moderazione.
Effettivamente tutti i racconti del libro sono trasgressivi e a loro modo provocatori, nel pieno stile dello scrittore americano: una serie di oscenità e non-sense buttati in mezzo alle storie che probabilmente verrebbero rifiutati da un qualsiasi editore, a meno che il nome sul manoscritto non sia appunto Chuck Palahniuk. A molti critici dà fastidio come lo scrittore di Portland usi le sue capacità narrative per creare storie al limite del buon gusto, o meglio come utilizzi un dono per sponsorizzare il male, se così si può dire.
La critica capita a ragione, ma d’altronde il pubblico di Chuck sa cosa aspettarsi dal suo beniamino.
Non li avrà quindi sorpresi che in ogni racconto di MAKE SOMETHING UPÂci sia una ricorrenza, una sorta di rito quasi bizzaro, fastidioso: infatti, tra una torcia umana e una battuta sulle tette, ad un certo punto delle storie qualche personaggio deve necessariamente riempire qualcosa con urina, tipo un profilattico, anche se nel contesto questo sembra non avere senso.
Per non parlare delle battute quasi bambinesche sul prepuzio che imperversano in buona parte del libro – ah ah, prepuzio – o sulla misoginia onnipresente che sicuramente funge da repellente per molte donne che si avvicinano ai brani.
Misoginia forse non è il termine adatto: l’autore condisce il libro con una dose abbondante di misantropia che si estende non solo verso l’umanità , ma tutto l’universo. Battute offensive, abusi minorili, campi di prigionia dove sono rinchiusi omosessuali che in realtà non sono altro che ragazzi etero che vogliono spillare soldi ai genitori completano il quadro di questo libro che sembra essere la sagra del cattivo gusto. Ma che ci crediate o meno tutti questi scenari finiscono per avere un senso.
Insomma, Palahniuk si rivela il solito cattivo ragazzo che mi ha fatto innamorare con storie al limite dell’assurdo, tipo Gang Bang, lo stesso cattivo ragazzo dal novantasei, data di uscita di Fight Club.
Lo stesso che i critici vorrebbero stroncare accusandolo di essere solo un bambino capriccioso che si sfoga parlando di oscenità , ma che poi devono ricredersi quando trovano frasi piene di sentimento come: «In un certo senso è sbagliato fotografare una persona cieca. È come rubargli qualcosa di incredibilmente caro di cui non sono a conoscenza». Ecco Chuck Palahniuk è il classico genio e sregolatezza, una delle ultime rock star letterarie, sicuramente uno da prendere o lasciare.
E io lo amo, amo il fatto che non gli interessi che le sue storie tolgano automaticamente dal suo target un certo tipo di pubblico, (chi leggerebbe un racconto su spogliarelli maschili, circo e incontinenza?), amo quella specie di arroganza provocatoria che mette in ogni frase.  La sua scrittura avvalora inoltre una tesi che sostengo dal primo momento in cui ho letto un libro: non conta cosa racconta una storia, ma come viene raccontata. Infatti, contenuti non adatti a deboli di cuore e persone facilmente impressionabili a parte, il punto forte di Make Something UpÂè la narrazione: sia chi ha letto vari testi di Palahniuk sia chi conosce solamente Fight Club sa bene il gusto che ha l’autore nel creare scenari grotteschi e al limite dell’immaginazione, conosce la minuzia dell’orrido con cui dipinge le situazioni più estreme e sa come con un colpo di penna riesca a ricondurre tutto alla realtà in poco tempo, in modo stupefacente, quasi elementare.
La sua buona scrittura non è affatto sprecata per parlare di SPOGLIARELLI MASCHILI, PRESERVATIVI PIENI DI URINA E VOMITO, e lui non è uno scrittore alla disperata ricerca di attenzioni o che vuole soltanto sfruttare il suo nome per pubblicare altre storie. Palahniuk sa benissimo che una fetta del suo pubblico lo segue a prescindere perché in fondo per alcuni è pur sempre il tizio di Fight ClubÂe infatti la storia numero diciannove di Make Something Up, EXPEDITION, annunciava in pompa magna un cameo di Tyler Durden, che avrebbe anticipato il suo agognato ritorno in Fight Club 2. Il racconto vede il protagonista, Felix M., uscire di casa ogni notte alla ricerca di un innegabile segno dell’esistenza della divinità , vagare tra miseria e disperazione per le strade e i sobborghi più malfamati, confrontandosi con situazioni e personaggi al limite della realtà . Più si prosegue più quello che ci si aspetta è l’intervento dell’eroe di Fight Club, ma niente. E anche se in realtà dopo metà della storia del buon Tyler non vediamo l’ombra importa davvero poco.
Come il fatto che venga appena nominato, quasi che la sua breve apparizione nel racconto non sia altro che una trovata commerciale, l’ennesima infamata di Chuck Palahniuk per costringere gli scettici a leggere il suo libro, quasi a voler dire: «Sono molto più di Fight Club, stronzetti».